Sulla spiaggia di Trappeto (Trapani), fino a pochi giorni fa, sorgeva “la Cupola”, un piccolo bunker costiero semidiroccato, costruito nei primi anni ’40, al quale la popolazione locale era molto affezionata. Faceva ormai parte del paesaggio, ma il tetto si era inclinato e, invece di procedere a un possibile restauro, le autorità hanno deciso di mandare uno scavatore per rimuoverlo. La notizia, divulgata dal giornale locale Il Vespro, ha suscitato ovunque indignazione e dispiacere, per “l’ennesimo intervento che distrugge pezzi della nostra storia, cancella i ricordi, le immagini, i momenti”.
Il recente episodio evoca in modo simbolico un’altra drastica rimozione, quella della vera storia dello sbarco angloamericano in Sicilia, di solito tramandato dalla storiografia tradizionale come una sorta di “passeggiata”, avvenuta tra festose distribuzioni di chewing gum e cioccolato da parte dei soldati alleati.
L’annichilimento della mafia e l’assalto al latifondo siciliano
Poco si può comprendere dello sbarco in Sicilia senza fare riferimento a un antefatto. Nel 1924, il prefetto di Trapani Cesare Mori (cui l’appena scomparso regista Pasquale Squitieri dedicò un famoso film) del ruolo di sradicare la mafia dalla Sicilia. Mori attuò una durissima repressione del fenomeno mafioso, ricorrendo, spesso, a metodi brutali: furono incardinati diecimila processi, con innumerevoli condanne, mentre molti pericolosi boss furono mandati al confino o costretti a emigrare negli States. Tuttavia, come scrive lo storico palermitano Giuseppe Carlo Marino in “Storia della mafia”, Mori seppe anche mobilitare largamente l’opinione pubblica, soprattutto tra i giovani, nell’impegno contro Cosa nostra facendo sentire la presenza dello Stato sul territorio. Attraverso il “bastone e la carota”, ridusse ciò che restava della mafia-delinquenza a una condizione “dormiente” e inattiva, ma fu costretto a fermarsi di fronte al baronato, il ceto dei grandi latifondisti che utilizzava la manovalanza mafiosa per il controllo delle proprietà agricole. Se male avevano sopportato l’opera del “Prefetto di ferro”, i baroni reagirono malissimo all’assalto al latifondo con l’istituzione, nel 1940, dell’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano. Questo organismo li costringeva, infatti, ad apportare migliorie produttive (con i contributi dello Stato) pena l’esproprio delle loro campagne. Così, i grandi proprietari terrieri fondarono un comitato d’azione separatista capeggiato da un triumvirato composto dal conte massone Lucio Tasca, dal liberale massone Andrea Finocchiaro-Aprile e dal “mafioso tout court” don Calogero Vizzini, tornato a Villalba dopo sei anni di confino. Nel ’42, il comitato prenderà il nome di Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (Mis), e avrà la sua grande occasione con lo sbarco alleato del ’43, salutando gioiosamente gli angloamericani al loro arrivo e “sollecitando” il popolino a fare altrettanto nelle strade e nelle piazze.
I servizi segreti Usa si avvalgono di Lucky Luciano
[…] Fu per scovare e colpire queste ultime, ben nascoste nella numerosa comunità italoamericana newyorkese, che uno dei massimi responsabili dell’intelligence, addetto alla sicurezza portuale, il maggiore Radcliffe Haffenden, decise di prendere i primi contatti con il gangster Lucky Luciano. Il boss, infatti, nonostante stesse scontando in carcere una condanna a cinquant’anni per sfruttamento della prostituzione, continuava a controllare le attività illecite del porto tramite il suo affiliato Joe Lanza.
[…] La collaborazione con la mafia partì in grande stile: la valanga di informazioni fornite ai servizi segreti Usa da Lucky Luciano consentì agli americani non solo di smantellare la rete spionistica italiana nel porto di New York, ma anche di garantirvi una forzosa pace sindacale per non turbare l’invio di materiale bellico in Europa.
[…] I contatti di Haffenden con Luciano sono confermati dai microfilm pubblicati per un breve periodo sul sito del Freedom information act (Foia) che riporta i resoconti delle indagini della stessa Fbi su Haffenden.
[…] Un altro servigio reso da Lucky Luciano fu quello di segnalare agli americani i mafiosi residenti in Sicilia che avrebbero certamente cooperato al momento dello sbarco in Sicilia (operazione Husky).
[…] Il principale interlocutore di Lucky Luciano nell’isola fu, appunto, don Calogero Vizzini,
Come la mafia sabotò due divisioni del Regio esercito
[…] Uno dei più efficaci provvedimenti mafiosi fu quello di minacciare pesantemente i militari siciliani di stanza nella loro regione. Venne “caldamente consigliata” la diserzione e il sabotaggio per evitare conseguenze spiacevoli per loro e le loro famiglie. Ecco perché due delle quattro divisioni mobili italiane di stanza in Sicilia si sfaldarono, in buona parte, all’arrivo degli angloamericani. Michele Pantaleone scrive in “Mafia e droga” che il 70% dei soldati delle divisioni “Assietta” e “Aosta” – quota corrispondente, appunto, a quella dei militari siciliani – il 21 luglio 1943, a sbarco avvenuto, “scomparve senza lasciare traccia pregiudicando, così, l’intero apparato difensivo siciliano”. Questo si era verificato poiché, come spiega Giuseppe Carlo Marino “il boss mafioso Genco Russo e i suoi sgherri avevano fatto intendere che c’erano parecchi malintenzionati che li avrebbero fatti fuori prima dell’arrivo degli anglo-americani”.
I soldati siciliani della “Assietta” e della “Aosta” provenivano dai ceti agrari e, come contadini, erano da sempre vessati dalle pressioni dei capi mafia e sottoposti ai loro ordini. Non a caso, una simile diserzione di massa non avvenne nella divisione “Livorno”, poiché in essa i siciliani erano pochissimi, appena il 9%. A ulteriore conferma, va considerato che i soldati siciliani costituenti il 60% della divisione “Napoli” fecero, invece, il loro dovere fino in fondo – ed eroicamente – perché si trovavano nella Sicilia orientale, quindi al di fuori della sfera di influenza dei mafiosi collaborazionisti (attivi, piuttosto, nell’entroterra). Questo dimostra che i militari siciliani non erano affatto meno “costituzionalmente combattivi” degli altri soldati italiani. A riprova di ciò, come appurato dal convegno svoltosi lo scorso anno a Napoli, voluto dal presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia, i siciliani furono, insieme ai campani, i più numerosi italiani partecipanti alla Resistenza e, nel nord Italia, dimostrarono grande spirito combattivo.
L’eroismo dimenticato della “Livorno“ e della “Napoli”
[…] Al momento dello sbarco, il 10 luglio 1943, la divisione motorizzata “Livorno”, per ordine del comandante della 6° armata, il valido generale Alfredo Guzzoni (poi processato dalla Rsi, ma assolto) fu prontamente mandata all’attacco della testa di ponte americana, sulle spiagge di Gela. Era da sola: come riferisce il suo comandante, gen. Domenico Chirieleison, l’appoggio della divisione corazzata tedesca “Hermann Goering” giunse, infatti, diverse ore dopo. Il comandante americano George Patton sottovalutò, inizialmente, la Livorno (convinto che le sue truppe avrebbero facilmente respinto quei “vigliacchi italiani”, come ebbe a definirli) ma, in capo a poche ore, l’impeto di quei soldati, pure, male armati, quasi privi di armi automatiche, senza copertura d’artiglieria e con pochi, obsoleti carri armati, riuscì a far arretrare gli statunitensi fino all’abitato di Gela e a travolgere le loro linee difensive. Furono momenti molto difficili per gli americani anche perché da Malta gli aerei inglesi non erano potuti decollare, in appoggio, a causa della nebbia.
L’uragano di fuoco navale
[…] Le truppe da sbarco di Patton erano in crisi, così le navi angloamericane ricevettero l’ordine di intervenire per salvare la situazione. Contro gli italo-tedeschi si scatenò, allora, un inferno di fuoco navale prodotto dai cannoni da 340 mm che “aravano” letteralmente sezioni di terreno procedendo di 100 metri alla volta, disintegrando qualsiasi forma di vita vi si fosse trovata. Poi si aggiunsero le bombe degli aerei inglesi, che erano finalmente riusciti a partire da Malta. I difensori dovettero ritirarsi. In un caso, un reparto italiano fu costretto ad arrendersi perché gli americani utilizzavano prigionieri di guerra come scudi umani. Nella “Relazione cronologica degli avvenimenti” del XVIII Comando Brigata Costiera, infatti, il generale Orazio Mariscalco annotò: “Il col. Altini comunica che la 49a btr. si è arresa perché il nemico veniva avanti facendosi coprire dai nostri soldati presi prigionieri…”.
Fu una carneficina per i giovani della “Livorno”, come ricorda Pierluigi Villari ne “L’onore dimenticato”: resisteranno ad oltranza per 24 ore tra i ruderi di Castelluccio di Gela. Un soldato così annotava nel suo diario: “Eravamo stretti uno all’altro, immersi nella polvere; era un martellare implacabile di una quarantina di cannoni navali, di pezzi di artiglieria campale, i colpi ci piovevano vicinissimo tutt’attorno mentre schegge, pallottole, sassi fischiavano sulla nostra testa”.
In totale, la “divisione fantasma”, come recita il titolo di un saggio di Camillo Nanni, lasciò sul campo, tra morti, feriti e dispersi, 7.200 uomini dei suoi 11.400 effettivi.
Anche nel settore inglese, più ad est, la divisione di fanteria “Napoli” insieme al Kampfgruppe “Schmalz”, combatté strenuamente fino all’annientamento. I pochi elementi superstiti si sacrificarono per permettere agli alleati tedeschi di ritirarsi sul fiume Simeto.
Alle due divisioni “Livorno” e “Napoli” che, pure, avevano giurato fedeltà al Re e non al Duce, sono stati negati per decenni, in nome della politica, la memoria e l’onore che spettavano loro per aver difeso, fino all’estremo sacrificio, il proprio paese.
Furono ben 630, infatti, le medaglie al valore – per gran parte postume – concesse ai militari del solo Regio esercito (escludendo Marina e Aeronautica) che difendevano la Sicilia. Di essi si ricordano il caporal maggiore Cesare Pellegrini, che impegnato in furiosi corpo a corpo, fu alla fine pugnalato nel fortino di Porta Marina; il sottotenente carrista Angelo Navari che col suo carro armato riuscì a impegnare una intera compagnia di soldati americani; il colonnello Mario Mona che resistette a oltranza di fronte alla spropositata preponderanza nemica per poi scomparire nella mischia; il sottotenente Luigi Scapuzzi che si sacrificò a Leonforte per permettere ai suoi colleghi e ai suoi uomini di poter ripiegare.
La stragi sconosciute dei prigionieri italiani
[…] Ai soldati che caddero prigionieri, non sempre capitò una sorte migliore dei loro commilitoni caduti. Sono, purtroppo, diverse le stragi compiute dagli americani ai danni di militari italiani arresi e civili inermi. A questi eccessi contribuì in modo determinante lo spirito particolarmente aggressivo infuso da Patton ai suoi uomini. Riportiamo uno dei suoi discorsi agli ufficiali precedenti lo sbarco: «Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali! » Molti subalterni lo presero alla lettera, come dimostra, ad esempio, il Massacro di Biscari che vide 76 prigionieri italiani e 12 civili cadere sotto le mitragliate del capitano John Compton e del sergente Horace West. Come riferisce Andrea Augello in “Uccidi gli italiani”, Compton si giustificò dichiarando che credeva di aver ben interpretato le parole del generale Patton. Anche gli otto carabinieri di Gela che si erano arresi dopo una breve resistenza fiaccata dal tiro navale, come ha rivelato il saggista Fabrizio Carloni, furono passati per le armi senza motivo. E ancora, le stragi e gli ammazzamenti di Piano Stella, di Comiso, di Castiglione, di Vittoria, di Canicattì, di Paceco, di Butera, di Santo Stefano di Camastra e vari altri paesi sono stati indagati dai testi di Giovanni Bartolone (“Le altre stragi”), Franco Nicastro (“Le stragi americane”) e Gianfranco Ciriacono (“Le stragi dimenticate”). Quasi tutti i responsabili, nei casi in cui furono sottoposti a corte marziale, furono assolti o condannati a pene irrisorie. Pubblichiamo la sentenza di assoluzione del capitano Compton, solo per breve tempo desecretata dagli archivi americani. Justin Harris, in una tesi di laurea dell’Università di San Marcos, in Texas, spiega che la sentenza fu “not guilty” – non colpevole, perché la commissione che giudicò Compton apparteneva alla sua stessa divisione, la 45esima. Harris ha anche pubblicato i nomi di tutti i militari che facevano parte del gruppo di fuoco.
[…] A Troina (EN), poi, cominciarono gli stupri, le uccisioni e le razzie del reparto Tabor, composto da 832 militari marocchini sbarcati al seguito della 3° divisione americana, che si protrarranno per quattro mesi fino alla Toscana segnando le vite di 60.000 italiani. Il dato si riferisce alle denunce raccolte dall’Istituto nazionale per le vittime di guerra, ma è sottostimato considerando che denunciare uno stupro, all’epoca, richiedeva molto coraggio. Notizie sulle cosiddette “marocchinate”, sono riportate da Bruno Spampanato in “Contromemoriale”.
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