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GIORNALISTI & GIORNATA DEL RICORDO – Noi dedichiamo un pensiero a Almerigo Grilz

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Sono ventotto i giornalisti italiani uccisi, 2800 quelli minacciati, almeno 15 che vivono sotto scorta; 1410 giornalisti uccisi nel mondo: la libertà di informazione è sotto attacco ovunque. Ieri le celebrazioni del Word Press Freedom Day, la Giornata Mondiale della libertà di stampa indetta dall’Unesco, tante sono state le iniziative pubbliche in memoria dei giornalisti uccisi e a sostegno dei cronisti minacciati in Italia a causa del loro lavoro.  Noi anche qui rivendichiamo che il Governo approvi la legge contro le “Querele facile”, primo passo per un’informazione più libera e vogliamo ricordare oltrwe chi è stato barbaramente ucciso dalla mafia e dal potere anche chi è morto facendo questo bel mestiere sui fronti di guerra. 

 

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“L’Italia è il Paese dell’Europa in cui è più a rischio chi fa il giornalista – ha detto in una conferenza stampa alla Camera Claudio Fava (SI), vicepresidente della Commissione Antimafia e coordinatore del Comitato che si occupa di mafia e informazione – e non ci sono solo le minacce fisiche e verbali ma anche le querele temerarie, fatte o minacciate, oltre alla situazione di precarietà professionale, sempre più diffusa”.

Il direttore di Ossigeno per l’informazione – che ha presentato la ricerca su mafia e informazione svolta da Ossigeno su mafia e informazione su incarico della Commissione parlamentare antimafia – Alberto Spampinato, ha ricordato che il Parlamento il 3 marzo scorso ha approvato all’unanimità la Relazione dell’Antimafia sul tema.

“Ci aspettiamo – ha aggiunto – che il Parlamento sia conseguente e cambi alcune leggi, innanzitutto proteggendo l’articolo 21 della Costituzione che afferma che l’informazione è un diritto ma la legge italiana non punisce chi impedisce di esercitarlo.

Ci vuole, insomma, il reato di ostacolo all’informazione”.

E’ inoltre necessario, per Ossigeno, uno sportello unico in cui vengano segnalate le violazioni e gli abusi e che possa intervenire con rapidità ed efficacia. La Giornata della libertà di stampa, ieri a Roma ha visto l’incontro tra 250 studenti delle scuole superiori, giornalisti minacciati a causa del loro lavoro e i familiari dei giornalisti uccisi presso la Biblioteca nazionale centrale e si conclusa con la proiezione del documentario “Silencio” realizzato da Attilio Bolzoni e Massimo Cappello, che racconta le storie dei cronisti minacciati in Messico e in Calabria.

E’ stato inoltre realizzato un pannello con i volti dei 28 giornalisti italiani uccisi – 9 per mano di mafia e camorra, 2 vittime del terrorismo, gli altri 17 mentre erano all’estero  -“Cercavano la verità: 28 nomi in una storia sola”, che verrà consegnato a tutte le istituzioni.

(ANSA)

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Noi insieme ai giornalisti uccisi in Italia, caduti sotto il piombo della mafia: Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Peppino Impastato, Mario Francese, Giuseppe Fava, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno e Beppe Alfano dal lontano 5 maggio 1960 all’8 maggio 1993 ricordiamo un amico, ripubblicando quanto fatto il 16 agosto del 2014:

 

RICORDANDO UN AMICO – ALMERIGO GRILZ PROFESSIONE REPORTER MILITANTE

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Tra le definizioni cucite addosso ad Almerigo Grilz, quella di Fausto Biloslavo, suo amico fraterno e collega di mille avventure, lo rappresenta come meglio non si potrebbe.

Le peggiori? Spia, per uno che non ha mai avuto il timore di metterci la faccia.

Trafficante d’armi, a lui che odiava chi, pur dichiarandosi cattolico, si arricchiva con le guerre.

Mercenario, come sentenziò l’ineffabile “Repubblica”, anch’essa in prima linea, sì, ma sul fronte della mistificazione.

Per il quotidiano di Scalfari il giornalista trentaquattrenne colpito alla nuca il 19 maggio 1987 mentre filmava un assalto dei ribelli del Mozambico a Caya, città sullo Zambesi presidiata dai soldati del governo di Maputo, rimaneva un «attivista fascista morto in Angola».

Particolare trascurabile, che i servizi di Grilz e dell’Albatros – l’agenzia giornalistica fondata con altri due ragazzi di destra, Biloslavo e Gian Micalessin – venissero passati dalle più importanti emittenti televisive e testate giornalistiche del mondo, tanto che persino l’americana Cbs aveva deciso di raccontare la lotta dei mujaheddin contro le truppe dell’Armata rossa utilizzando il lavoro sul campo dei tre giovani triestini.

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Ma cìè di più – come scrive http://www.nuovaalabarda.org parlando di Almerigo “e che non basta essere morti prematuramente per morte violenta per cancellare tutto il resto, né ribadire che Grilz aveva raggiunto la notorietà a Trieste ben prima di diventare giornalista perché era uno dei nomi più frequenti nella cronaca delle aggressioni contro militanti della sinistra negli anni Settanta, – aggiungendo  – intendiamo invece chiarire un’altra cosa. Come abbiamo già avuto modo di dire e di scrivere, le situazioni di Marco Lucchetta, Saša Ota, Dario D’Angelo e Miran Hrovatin da una parte e Grilz dall’altra sono del tutto diverse. I primi tre sono morti mentre stavano svolgendo un servizio pubblico per conto della televisione pubblica italiana, e, cosa non indifferente, hanno dato la loro vita per salvare quella di un bambino dallo scoppio di una bomba. Hrovatin invece è stato ucciso in circostanze mai chiarite in un agguato teso a lui ed alla sua collega Ilaria Alpi mentre si trovavano a svolgere un’inchiesta giornalistica anch’essi per conto della televisione pubblica.
Almerigo Grilz non si trovava in Mozambico a svolgere un servizio pubblico. Grilz, che fu assieme a Fausto Biloslavo, Gian Micalessin e Riccardo Pellicetti, tutti ex militanti di estrema destra, tra i fondatori dell’agenzia di stampa Albatross, specializzata in reportages da zone di guerra, si era unito alle truppe guerrigliere della Renamo per far conoscere la loro “guerra dimenticata”, cioè praticamente fungeva da loro ufficio stampa. Nelle foto che lo ritraggono, infatti, non lo si vede vestito in modo tale da farlo apparire come un giornalista, un cronista imparziale: lo vediamo vestito da guerrigliero, come quelli con cui si trovava.-
ed ancora –  Ciò che vogliamo dire con questo è che Grilz non merita riconoscimenti pubblici non tanto perché nel suo passato di militante di destra ci sono più ombre di violenza che azioni positive, quanto perché non fu un cronista indipendente che diede la vita per la libertà di informazione, ma rimase sempre un militante anticomunista, motivo per il quale scelse di seguire le sorti della guerriglia della Renamo, e fu come fiancheggiatore di essa che perse la vita.
Queste le cose che andrebbero dette, al di là della retorica delle commemorazioni del “camerata” e del “martire” che ogni anno vengono riprese dai suoi ex sodali, oggi divenuti personalità importanti nella vita politica italiana. E, del resto, a Grilz è già stata intitolata una via a Trieste: l’accanimento di pretendere dall’Associazione della stampa una targa come quella dedicata agli altri giornalisti caduti in servizio sembra solo una ripicca di rivalsa nei confronti di un’opinione pubblica che comunque non dimentica chi fu effettivamente Almerigo Grilz e cosa abbia rappresentato per Trieste”.

Così lo vedono ancora chi è “contro”.. ma per noi Grilz rimane un amico, uno che vedevano alle “feste” dei disocccupati, il primo maggio, sull’Etna, agli attivi del Fronte della Gioventù, anche a Catania, Siracusa, e Capo d’Orlando, che ci raccontava storie, che disegnava fumetti, che parlava di una Trieste italiana. 

Certo uno che non si tirava mai indietro. 

Aveva una faccia non presentabile, un passato d’attivista, e Almirante lo preferì a Fini … , anche questa è una verità scomoda, a dirigire il Fronte, e lui non faceva parte nè di Linea nè era un rautiniano era un triestino.

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Mas per tanti, a non commemorarlo da subito, la colpa imperdonabile di Grilz era l’essere stato tra i massimi dirigenti del Fronte della Gioventù, prima forza politica giovanile nella Trieste degli anni Settanta; l’aver rappresentato, da consigliere comunale del Msi, le sofferenze e le ragioni degli italiani orientali.

Un leader per il quale il salto nella politica nazionale sembrava dietro l’angolo.

Come altri, avrebbe potuto ingannare l’attesa di una candidatura ritagliando agenzie stampa nel caldo tepore di una redazione.

Ma Grilz, già vice segretario nazionale del FdG, scelse – visto che non aveva un’alternativa politica credibile da seguire –  di andare a cercare le guerre dimenticate, senza la copertura di una qualsiasi testata e “armato” solo di una cinepresa, la Super 8 con cui s’era impratichito filmando cortei.

Poco più che ventenne – era nato l’11 aprile del 1953 – aveva seguito l’invasione israeliana in Libano – lì aveva amici anche nella famiglia presidenziale ed insieme ad altri giovani camerati sognava anche di andarci a lavorare, fare impresa, creare posti di lavoro – e da allora non si era fermato più.

Dieci mesi l’anno a inseguire conflitti: in Cambogia, sul confine thailandese-birmano, in Afghanistan, nelle Filippine, nel Medio Oriente infiammato dalla guerra tra Iran e Iraq. «Why not?» era il suo motto.

Perché no? Di motivi per non andare, in realtà, ce ne sarebbero stati molti. Scalare montagne a dorso di mulo e rischiare di finire nelle mani dei sovietici non sono esattamente incentivi.

Lo stesso Biloslavo nel 1988 sarà arrestato a Kabul da agenti governativi sovietici e incarcerato per sette mesi.

amerigo_2Paradossale che a scontare il pregiudizio di essere giornalista militante sia Grilz, il cui stile è asciutto e privo di retorica.

Dà voce ai soldati e alla gente comune.

Non infiocchetta verità precostituite.

Non si fa portavoce di una parte. Non ci sono guerre giuste e guerre sbagliate, spiega. «All’inizio di una guerra c’è una parte che ha ragione e una che ha torto – scrive – ma poi arriva il vortice e non ci sono più buoni e cattivi».

Quando, alle quattro del mattino di quel 19 maggio di ormai tanti anni fa, i guerriglieri anticomunisti del Renamo si mettono in marcia, sa che, comunque vada, va incontro all’ennesimo massacro.

Ad aspettarli, qualche ora dopo, troveranno non soltanto i governativi ma anche tanti troppi baschi rossi e una pallottola vagante che Grilz, abituato a filmare in piedi, si prenderà in testa. Della sua morte ne parlarono diffusamente televisioni e giornali in ogni angolo del pianeta. Non altrettanto si fece in Italia, sia pure con rare e lodevoli eccezioni.

Se il nome di Grilz è inciso sul monumento che “Reporters sans frontières” ha dedicato in Normandia a tutti i giornalisti caduti sul campo, da noi continua a creare imbarazzo e ostracismi. Per spezzare l’oblio, i suoi due antichi amici, nel 2007, hanno pubblicato “Gli occhi della guerra”, libro fotografico frutto di venticinque anni di reportage con diversi scatti di Almerigo. Pochi anni prima, nel 2002, un gruppo di amici e colleghi erano stati in Mozambico per scoprire dov’era stato sepolto, realizzando il commuovente documentario “L’albero di Almerigo”.

Un viaggio, quello di Grilz, di sola andata.

Non è un caso, del resto, che Micalessin, per raccontare le “Storie dei soldati italiani caduti nel paese degli aquiloni” abbia scelto come titolo del suo ultimo libro “Afghanistan solo andata” (Cairo Editore).

Di quelle storie senza ritorno, come quella di Grilz, si sa ancora troppo poco.

DA ALMERIGO GRILZ A SIMONE CAMILLI – MORIRE DESCRIVENDO LA GUERRA


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E’ lunghissimo l’elenco dei cronisti di guerra morti in questo ultimi 15 anni nei vari campi di battaglia, in tutto il mondo e Simone non sarà certo l’ultimo e noi qui vogliamo ricoradre un amico Almerigo Grilz, primo ucciso dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Lui è morto in Mozambico come corrispondente della Albatross Press Agency che avevo fondato nel 1983 insieme con Fausto Biloslavo e Gian Micalessin.

All’alba del 19 maggio 1987, il 34enne – dalla fine degli Anni 70 aveva documentato i territori più caldi del mondo dal Libano alla Birmania, passando da Cambogia, Iran, Iraq e Afghanistan – fu colpito da una pallottola alla testa mentre stava filmando un attacco nella città di Caia.

almerigo grilz 6Veniva spesso in Sicilia a far politica, a Capo d’Orlando, amico di tanti, di Renato Lo Presti, per esempio.. aveva coraggio, un osso duro e a Trieste dove viveva militava nel Fronte della Gioventù.

Ma tornando alla cronaca.

Il 15 luglio scorso la freelance Barbara Schiavulli ha scritto che il giornalismo è una professione, come fare il medico, come fare l’avvocato o l’idraulico, ma con qualche rischio in più.

Dal 1987 sono tanti i giornalisti italiani morti svolgendo il loro lavoro in zone di guerra o guerriglia.

Ci ricorda Mimmo Candido su la Stampa, che fu in Crimea che nacque il giornalista di guerra, nel  1854, mentre Ighilterra e Francia (e Impero Ottomano) stavano combattendo contro l’impero zarista, trascinandosi  senza grandi risultati militari, pur se con un forte dispendio di vite umane e di risorse economiche.

Fu per questo che il premier inglese convocò a Westminster il direttore del “Times” e gli rivolse un invito: “Le parlo a nome della Corona, preoccupata per i costi crescenti di questo conflitto e però, anche, per la poca attenzione che la nostra società sta dando allo sforzo del paese.

La Corona le chiede di inviare in Crimea uno dei suoi migliori giornalisti, perché il suo racconto dell’eroismo dei nostri soldati  – che stanno combattendo in un terreno difficile e assai rischioso – possa trovare eco nel pubblico inglese e suscitare quella partecipazione e quell’entusiasmo che finora sono mancati”.

Il risultato, si sa, fu l’illogica ed eroica carica dei 600, emblama poetico e cinematografico  del fatto che ogni guerra è fatta di avvenimenti dove retorica ed epica stravolgono le dimensioni della realtà, ma che, grazie ai cronisti che ne descrivono  impietosamente i costi umani, le deficienze militari, la disperazione dei sopravvissuti, l’angoscia di scelte di cui spesso non si riconosce alcuna razionalità, è di fatto la follia più assurda per possa prendere l’uomo.

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Ed anche i Giornalisti morti: gli italiani uccisi in guerra, includendo anche l’ultimo ragazzo, Giulio Regeni,  morto poco più di due mesi fa in Egitto. Lui scriveva per “il Manifesto”.

Il tesserino da giornalista di Simone Camilli il reporter che lavorava per l’Associated Press nella Striscia di Gaza.

 

Quella dei giornalisti che hanno perso la vita nelle zone di guerra ha ormai assunto i contorni della strage.

Confermata dai numeri dell’organizzazione indipendente Committee to protect journalists (Cpj).

Dal 1992, anno d’inizio delle rilevazioni, sono 1.068 i reporter uccisi in zone di conflitto.
 

DRAMMA CAMILLI A GAZA.

L’ultimo italiano a morire, mercoledì 13 agosto, è stato Simone Camilli il reporter che lavorava per l’Associated Press nella Striscia di Gaza: il 35enne romano è stato coinvolto nell’esplosione di un missile sganciato da un F16 israeliano e rimasto sul terreno a Beit Lahiya: alcuni artificieri avevano provato a disinnescare l’ordigno, quando è esploso improvvisamente, uccidendo nel complesso sei persone.
 

ROCCHELLI UCCISO IN UCRAINA.

Prima di Camilli, a maggio era stata la volta di Andrea Rocchelli, ucciso da alcuni colpi di mortaio in un villaggio vicino a Slaviansk, nell’Ucraina dell’Est, dove sono in corso combattimenti tra i miliziani filorussi e i soldati di Kiev.
In quell’occasione morì anche Andrey Mironov, giornalista e attivista per i diritti umani e a sua volta in prima linea per documentare il fronte caldo del Paese.
 

NEL 2014 GIÀ 30 MORTI.

Dall’inizio del 2014, stando alle statistiche del Cpj, sono già 30 i reporter che hanno perso la vita. I Paesi più pericolosi per i reporter, secondo l’organizzazione no-profit, sono Siria (cinque morti), Ucraina (quattro), Israele e Gaza (quattro) e Iraq (3).

Nel 2013, invece, secondo i dati di Reporter senza frontiere (Rsf), sono stati 71 i giornalisti morti in aree di conflitto, di cui il 40% negli scontri in Siria, Somalia, Mali, nelle province dello Chhattisgarh (India), Belucistan (Pakistan) e Daghestan (Russia).

 

Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, il primo italiano inviato di guerra a morire è stato Almerigo Grilz, al lavoro in Mozambico come corrispondente della Albatross Press Agency che avevo fondato nel 1983 insieme con Fausto Biloslavo e Gian Micalessin.

Ilaria Alpi fu uccisa il 20 marzo 1994 in Somalia.

 

 

 

 

 

 

 

All’alba del 19 maggio 1987, il 34enne – dalla fine degli Anni 70 aveva documentato i territori più caldi del mondo dal Libano alla Birmania, passando da Cambogia, Iran, Iraq e Afghanistan – fu colpito da una pallottola alla testa mentre stava filmando un attacco nella città di Caia. 

 

LUCCHETTA IN BOSNIA. Il 1994 fu, invece, un anno drammatico: a gennaio in Bosnia a Mostar persero la vita tre inviati della Rai, il giornalista Marco Luchetta, e gli operatoriAlessandro Ota e Dario D’Angelo.
I tre erano impegnati a realizzare un servizio su alcuni bimbi ricoverati in ospedale: una granata, lanciata dalle linee croato-bosniache, li colpì mentre stavano filmando un giovanissimo che sotto le bombe giocava in strada.
 

IL MISTERO DI ILARIA ALPI. Pochi mesi dopo fu la volta della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e dell’operatore triestino Miran Hrovatin. La brutale uccisione dei due avvenne in Somalia il 20 marzo 1994: un gruppo di somali costrinse l’auto su cui viaggiavano i giornalisti a fermarsi e fece fuoco su Alpi e Hrovatin.
Per il duplice omicidio la giustizia italiana ha condannato Hashi Omar Hassan, che da anni si trova in carcere anche se il suo principale accusatore ha ammesso di aver mentito.
 

GIALLO DIETRO L’OMICIDIO. Il processo, infatti, non ha chiarito i dubbi della vicenda: secondo molti l’uccisione fu un’esecuzione preordinata affinché i due non potessero raccontare quello che avevano scoperto sul traffico di armi. E anche le rivelazioni degli atti appena desecretati dal governo sembrerebbero andare verso questa direzione.
 

PALMISANO A MOGADISCIO. Sempre in Somalia il nuovo lutto che colpì la stampa italiana arrivò a febbraio 1995.
A Mogadiscio il convoglio con la giornalista del Tg2 Carmen Lasorella accompagnata dall’operatore Marcello Palmisano fu coinvolto in una sparatoria tra la scorta dei reporter e un gruppo di miliziani armati.
Dalle ricostruzioni si apprese che Palmisano venne colpito mentre la macchina dei giornalisti prese fuoco: Lasorella si salvò riportando una leggera ferita, ma il corpo del 55enne venne ritrovato semicarbonizzato.
 

KOSOVO TOMBA DI GRUENER. Nel 1999 le brutte notizie arrivarono dal Kosovo. Qui, il 13 giugno alcuni cecchini presero di mira il giornalista italiano di lingua tedesca Gabriel Gruener, che morì sotto i colpi dei tiratori scelti, mentre era inviato per il settimanale tedescoStern. Quel giorno morì anche il collega tedesco del 35enne Volker Kraemer.

Maria Grazia Cutuli, inviata del 'Corriere della Sera', venne uccisa tra le montagne dell’Afghanistan nel 2001.

 

 

 

 

 

 

 

Neppure l’inizio del terzo millennio ha posto un freno alle morti dei giornalisti italiani.
Tiblisi, capitale della Georgia, si rivelò fatale per Antonio Russo, inviato di Radio radicaleche il 16 ottobre 2000 stava documentando la pulizia etnica a Pristina.
Il 40enne era nell’area del Caucaso da luglio e stava seguendo l’evolversi della guerra in Cecenia: fu l’ultimo giornalista occidentale a fornire documenti di quanto stava accadendo nella zona. Fu trovato morto nei pressi di una base militare.
 

CUTULI IN AFGHANISTAN. Tra le montagne dell’Afghanistan il 19 novembre 2001 mentre stavano percorrendo la strada che da Jalalabad porta a Kabul – a circa 40 chilometri dalla capitale – venne assassinata a colpi di Ak47 l’inviata del Corriere della Sera Maria Grazia Cutuli. La giornalista era da un mese in Afghanistan ed era riuscita anche a introdursi nei covi di al Qaeda distrutti dalle bombe americane.
Per far luce sul tragico episodio sono stati istituiti due processi, uno in Italia e l’altro in Afghanistan: quest’ultimo procedimento ha portato alla pena capitale per tre persone.
 

SPARI FATALI PER CIRIELLO. Il 13 marzo 2002 il fotoreporter freelance Raffaele Ciriellovenne stroncato da una raffica di proiettili israeliani a Ramallah, mentre stava documentando gli scontri.
Appassionato di fotogiornalismo in zone di guerra, Ciriello aveva realizzato servizi in diverse parti del mondo: dal Libano all’Afghanistan, dal Ruanda al Kosovo, dall’Eritrea alla Palestina.
L’inchiesta sulla sua morte aperta nel 2002 dalla procura di Milano è stata contraddistinta dall’opposizione di Tel Aviv che s’è rifiutata di identificare i soldati che fecero partire la raffica di proiettili che colpirono Ciriello.
 

BALDONI RAPITO E UCCISO. In Iraq perse la vita Enzo Baldoni. Entrato nel Paese come giornalista freelance venne rapito a Najaf, a circa 160 chilometri da Baghdad, il 21 agosto 2004 dall’Esercito islamico dell’Iraq: il reporter era nelle mani di un’organizzazione di fondamentalisti musulmani legata ad al Qaeda.
I rapitori di Baldoni posero un ultimatum all’Italia per ritirare le truppe in 48 ore: l’uomo venne ucciso in un luogo mai accertato e solo nell’aprile 2010 i suoi resti fecero ritorno in Italia.
 

POLENGHI IN THAILANDIA. Infine, nel 2010 è stato ucciso il fotoreporter Fabio Polenghi.
Era il 19 maggio e il 48enne si trovava a Bangkok quando fu raggiunto da un proiettile in dotazione alle forze armate della Thailandia sparato dalla parte in cui i militari avanzavano per contenere le camicie rosse.

e quindi Giulio Regeni.

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E la lista di certo si allungherà ancora….

 

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